mercoledì 31 dicembre 2014

NICHILISMO GAIO secondo Augusto del Noce (1984)

Alcune riflessioni di grande attualità del filosofo AUGUSTO DEL NOCE (11.8.10 – 30.12.89) in una sua lettera a Rodolfo Quadrelli (8.1.1984). 
L'intero testo è disponibile presso la rivista TEMPI :
 http://www.tempi.it/del-noce-parlava-nichilismo-gaio-simbolo-omosessualita#ixzz3NQGW7iOy

Del nichilismo tragico si potevano trovare le ultime tracce nel terrorismo. Questo nichilismo doveva portare a una soluzione rivoluzionaria più o meno confusamente intravista o meglio
confusamente ricordata; un qualche elemento di rabbia c’era ancora, e questo gli conferiva una sembianza lontanamente umana (…).
   Il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nei due sensi, che è senza inquietudine (cioè cerca una sequenza di godimenti superficiali nell’intento di eliminare il dramma dal cuore dell’uomo) – forse per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano – e che ha il suo simbolo nell’omosessualità (per il fatto che intende sempre l’amore “omosessualmente”, anche quando mantiene il rapporto uomo-donna)».

Il giudizio che qui ci interessa è antropologico, non anzitutto etico: il nichilismo gaio “non vedendo” la differenza, anche sessuale, come segno dell’altro, rischia di concepire l’amore come puro prolungamento dell’io (appunto “omosessualmente”). Non per nulla trova i suoi rappresentanti in ex cattolici, corteggiati ancora da cattolici che riconoscono in loro qualcosa che trovano sul loro fondo. Tale nichilismo è esattamente la riduzione di ogni valore a “valore di scambio”; l’esito borghese massimo, nel peggiore dei sensi, del processo che comincia con la prima guerra mondiale.
Il peggiore annebbiamento che il nichilismo genera è la perdita del senso dell’interdipendenza dei fattori nella storia presente; infatti, a ben guardare non è che l’altra faccia dello scientismo e della sua necessaria autodissoluzione da ogni traccia di valori che non siano strumentali; e in ciò, come dici giustamente, è l’esatto opposto dell’umanesimo (…).


martedì 16 dicembre 2014

L'IDEOLOGIA GENDER HA GIA' VINTO? Di G. Ricci

Il diritto del figlio di avere un padre e una madre
L’ipertrofia dei diritti senza responsabilità
Scenari delle biotecnologie e vacillamenti antropologici
Il rischio della rinascita dell’eugenetica

Curiosa faccenda quella specie di dibattito, sempre più incalzante,  intorno al diritto di ciò che viene chiamato matrimonio gay. Si ha l’impressione di grande confusione. A forza di sentir parlare di diritti civili e umani, di discriminazione e omofobia, si ha l’impressione di trovarci in un’emergenza. Ma non è così. In materia di vera omofobia l’Italia è tra gli ultimi posti tra i paesi europei. Inoltre in quei paesi che regolamentano le unioni gay, le coppie che hanno effettivamente richiesto di sposarsi è molto basso. E dunque? C’è qualcosa che non torna.
E’ facile schematizzare, come fanno i media, quando inducono a far credere che il matrimonio gay sia di sinistra e il matrimonio tradizionale di destra. Da una parte, sempre secondo il teatrino mediatico, da una parte ci sarebbe il progressismo e la conquista di nuovi diritti (che vanno a braccetto con la vorace espansione neoliberista), dall’altra la conservazione che attinge a un vetusto ”integralismo oscurantista”. Ma non è così.
Vi ricordate quando, nel marzo dell’anno scorso, Obama chiese alla Corte Suprema di revocare il principio secondo cui il matrimonio è costituito da una donna e un uomo? E vi ricordate le due copertine della prestigiosa rivista Time, una con due lesbiche che si baciano e l’altra con due gay che si baciano? Su entrambe campeggiava lo stesso titolo: i matrimoni gay hanno già vinto.
Il trucco dei media e la potenza delle lobby interessate non cessano di stupire con i loro giochi di prestigio.  
Anche nel nostro paese, ormai il gioco si fa serio. Le numerose iniziative che vengono proposte nelle scuole con progetti, programmi e corsi favorevoli all’ideologia gender, fioriscono numerosi. Con il pretesto della lotta alla discriminazione e all’omofobia, passano in realtà contenuti alquanto ideologici. I finanziamenti provengono dall’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), dal Dipartimento delle Pari Opportunità e dal Miur con la collaborazione di diverse realtà associative LGBT che gestiscono progetti mirati, testimonianze, lezioni, corsi di “aggiornamento”. E’ qualcosa che passa sulla testa dei cittadini, di genitori e insegnanti, molti dei quali dissentono dai principi che informano la teoria gender: la naturalità dell’omosessualità, del lesbismo, della transessualità e della bisessualità, la liceità delle famiglie omoparentali, il diritto dell’adozione gay. Passa una certa idea di identità e di sessualità. Fenomeni, quest’ultimi, considerati “moderni”, indiscutibili, consoni all’ormai inarrestabile tendenza dei tempi. Tutto ciò, ricordiamolo, ancor prima che vi sia in tale materia, una precisa legislazione. L’Europa ce lo chiede, si dice, anzi ce lo impone. Forse siamo noi, mediterranei, a far finta di non sapere che in molti paesi nordici (Svezia, Danimarca, Olanda, Germania e altri) l’ideologia gender è già operante e praticata quotidianamente. Peccato che nessuno si soffermi a considerare che vi sono diverse Europe, una nordica e una mediterranea, che le loro culture, la concezione stessa della sessualità e dei legami sociali, sono storicamente differenti. 
Ritorniamo alla copertina del Time: “abbiamo già vinto”. Sarebbe l’ideologia gender a cantare vittoria, a creare il tema dei matrimoni gay come una priorità sociale, imprescindibile, un diritto che va riconosciuto e soprattutto (cosa non detta) finanziato dalla comunità. Lo scopo è di imporre un pensiero unico intorno a temi cruciali come la sessualità, la differenza tra i sessi, il legame tra uomo e donna, la famiglia, il matrimonio, lo statuto di figlio, la filiazione, l’eterologa, i rapporti di parentela. Forse non ci si rende conto che ciascuno di questi termini costituisce un elemento indispensabile che sorregge l’impalcatura antropologica (ossia storica, culturale, psichica, economica) con cui l’umanità, da millenni, ha avanzato nel suo cammino.  
Se prendessimo alla lettera l’affermazione del Time dovremmo rispondere che ad aver vinto è la visione biotecnologica che promette nuovi mirabolanti scenari antropologici.
Ad aver vinto è il diritto ad avere - avere quale possesso narcisistico - un bambino a tutti i costi, per esempio con la fecondazione eterologa. Ad aver vinto è quell’idea ultrascientista che promette all’individuo di poter determinare il corso della natura a suo piacimento. Ad aver vinto è l’idea secondo cui un soggetto può cambiare “liberamente” la propria identità sessuale, piegare l’anatomia alle necessità del proprio immaginario, trasformarla, praticarla nei suoi più indicibili godimenti. In definitiva il soggetto può finalmente vivere nell’euforia di una libertà senza responsabilità. In altri termini: l’individuo può illudersi che consumando bene la propria libertà possa garantirsi il massimo della felicità.  

venerdì 3 ottobre 2014

IL GENDER, QUESTIONE POLITICA E CULTURALE. Intervista a MARGUERITE PEETERS a cura di Giovanni Maria Del Re


Riproduciamo i passi più significativi dell'intervista di Giovanni Maria del Re a Marguerite Peeters, uscita presso l'Avvenire del 3 ottobre 2014 con il titolo "L'assalto della gendercrazia". 
Vai all'articolo: http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/assalto-della-gendercrazia.aspx

M. Peeters è autrice del libro IL GENDER, una questione politica e culturale (Ed. San Paolo) in cui propone diverse considerazioni originali che fanno intendere, situandoli storicamente, l'origine e 
il funzionamento dell'ideologia gender.

Gender. Una semplice parola, dilagata negli ultimi vent’anni, è al centro di un’autentica rivoluzione ideologica dalle implicazioni massicce. Perché è la parola-codice che rinvia a una identità sessuale non più collegata a quella biologica fra maschio e femmina. Una dei massimi esperti in materia è Marguerite Peeters, direttore dell’Istituto per una dinamica di dialogo interculturale con sede a Bruxelles, e docente ospite di Teologia presso l’Università Urbaniana. La studiosa si dedica da anni alla questione e ha scritto vari libri in materia. Di recente ha pubblicato in Italia Il gender. Una questione politica e culturale (San Paolo Ed.). 
«La parola gender – spiega – è cominciata ad apparire all’inizio degli anni Novanta nel linguaggio degli organismi internazionali, l’Onu anzitutto. Prima di allora in questo ambito non si utilizzava, ad esempio non esiste nei trattati internazionali sui diritti dell’uomo. Dunque è soprattutto nella conferenza di Pechino sulla donna del 1995 che non solo viene utilizzata, ma diviene centrale in quello che viene definito il “consenso di Pechino”. L’obiettivo della conferenza era quello che in francese e in italiano viene chiamata “eguaglianza dei sessi”, mentre in inglese si parla di “gender equality”. In quel momento la parola gender fu dunque intesa dai partecipanti alla conferenza come riferimento alla parità uomo-donna.
In realtà, però, il fatto che si sia usato il termine gender e non più quello di “donna” [quella di Pechino era una “Conferenza sulla donna”, ndr], rivelava che una certa lobby aveva spinto per l’utilizzo di questa parola a livello internazionale». 
       Di quale “lobby” parla?
«Se si guarda la storia di questa parola negli Usa fin dagli anni Cinquanta c’è una doppia origine: femminista e omosessuale, che hanno una continuità ideologica». 
    Si riferisce al fatto che con “gender” si recide il collegamento tra identità sessuale e identità biologica?
«Esatto. L’obiettivo comune è de-costruire: la maternità, la paternità, la filialità, la nuzialità, la complementarietà uomo-donna. Tutto questo viene interpretato come mera costruzione sociale e non come un dato costitutivo sin dall’origine. Si è perso il senso comune della nostra umanità. È un lungo processo di rivoluzione culturale in Occidente».
      Come hanno fatto questi gruppi a imporre questa ideologia a Pechino?
«Vede, vi è stata una manipolazione semantica, visto che come dicevo la parola gender in inglese può indicare uomo-donna. E i negoziati sono notoriamente in inglese. Nessuno si rese conto delle implicazioni, note solo a ristretti ambienti intellettuali. Del resto si è poi visto che non c’è solo la parola gender, ma un intero linguaggio imposto da una ristretta intellighenzia tutta occidentale. Mi riferisco a espressioni come “salute riproduttiva”, “autonomizzazione della donna” e via dicendo». 
    Questa “rivoluzione culturale” è il prodotto diretto di Pechino?
«Diciamo che Pechino è stata presa ostaggio da questi gruppi di pressione di origine occidentale, che si sono serviti della conferenza per farne una tappa fondamentale dello loro strategia. (...) Basti dire che l’Unione Africana, immediatamente dopo la sua creazione nel 2002, ha adottato questa prospettiva del gender in tutti i settori, forse più ancora che in Europa. Interi Paesi sono stati presi ostaggio sulla base del “consenso di Pechino”».
    Lei ha più volte criticato il tipo di promozione che si fa della donna in questo ambito…
«Certo. Si promuove la donna dal punto di vista del potere sociale, economico, politico, ma non si parla mai della vocazione della donna come madre, come educatrice. (...) E nella rivoluzione femminista non si parla di amore, ma esclusivamente di potere. Ovviamente sono per lo sviluppo integrale dell’uomo e della donna, ma, come ha detto Giovanni Paolo II, la maternità è una parte dell’essere della donna. Che ha una vocazione diversa da quella dell’uomo». 


martedì 30 settembre 2014

LA STORIA DEI GEMELLI REIMER E IL GENDER. Intervista a JOHN COLAPINTO


Pubblichiamo l'intervista a John Colapinto, autore del libro Bruce, Brenda e David. Il ragazzo che fu cresciuto come una ragazza (Ed. San Paolo, 2014). 
E' la storia che racconta la nascita, negli anni '60 in America, del concetto di gender. Il dottor Money applica le sue teorie sul gender  a uno dei gemelli Reimer.

L'intervista si riferisce al video reperibile su YouTube:  http://youtu.be/lJuHjQ5IlUY

DOMANDA: Cosa è più importante nel determinare l'identità sessuale? La natura o la cultura? Il dibattito si è sviluppato con il sorprendente caso del bimbo canadese che è stato cresciuto come una bambina, dopo avere perso il pene in una circoncisione male eseguita.

Il caso è stato utilizzato per anni come prova a sostegno dell'idea che non si nasce maschi e femmine ma lo si diventa tramite educazione. Il giornalistaJohn Colapinto ha svelato che il cambiamento di sesso è stato un terribile fallimento. La ragazza è tornata ad essere un ragazzo. Questo nuovo libro si intitola Bruce, Brenda e David. Il ragazzo che fu cresciuto come una ragazza, (Ed. San Paolo).
In un senso o nell'altro questo libro ha fatto parlare di sé per 30 anni; ma solo recentemente, quando è stata resa nota l'identità del bambino, è venuta a galla tutta la verità. Per coloro che non la conoscono, raccontaci la storia della famiglia Reimer e di quanto è accaduto al loro bambino. 
COLAPINTO. Nel 1965 Ron e Janet Reimer, una giovane coppia non ancora ventenne, ha avuto una coppia di gemelli, Bruce e Brian.
A circa 8 mesi i bambini hanno manifestato una patologia chiamata fimosi, ovvero  un restringimento del prepuzio in punta. Il loro medico, a Winnipeg, consigliò la circoncisione. Per puro caso Bruce è stato il primo a essere circonciso. La circoncisione viene di solito eseguita con bisturi e uno strumento chiamato clamp, simile a un'attrezzatura operatoria chiamata elettrocauterio che usa il calore per chiudere i vasi sanguigni mentre taglia. Il medico, per errore o per un cattivo funzionamento dello strumento, bruciò l'intero pene del bambino. Nel giro di alcuni giorni il pene si necrotizzò e si staccò completamente. Era il 1966, i gemelli avevano 8 mesi, i genitori erano assolutamente sconvolti. Si rivolsero a tutti i medici per chiedere cosa dovevano fare.
Venne detto loro che il pene non poteva essere ricostruito in modo efficace che consentisse di urinare in piedi e avere rapporti sessuali. Si sarebbe potuta applicare come un'appendice di tessuto, ma non avrebbe avuto un aspetto normale, né avrebbe funzionato correttamente. Si chiesero: “Questo è il meglio che la scienza medica ci può offrire?”Si rivolsero allora a una grande clinica e venne detta loro la stessa cosa, e questo li fece sprofondare davvero nella disperazione. Tornarono a Winnipeg e passarono i mesi seguenti in completo isolamento, ritirandosi, pensando a come crescere questo figlio così orribilmente mutilato. Poi, un giorno, mentre stavano guardando alla TV un grande vecchio programma della BBC, This Hour Has Seven Days, videro un uomo, il dott. John Money dell’Istituto Johns Hopkins, e videro quella nuova e straordinaria clinica dove egli lavorava.

Nella clinica si trasformavano gli uomini in donne e le donne in uomini. Si trattava di adulti che avevano l’impressione di vivere nel corpo sbagliato. Oggi siamo abituati all'idea, forse anche troppo, perché negli show televisivi se ne parla in continuazione, ma nel 1967 era una cosa assolutamente pazzesca.
DOMANDA: John Money è molto importante in questa storia, la sua personalità, le sue teorie. Raccontami di lui.
COLAPINTO. Nel momento in cui i Reimer lo incontrano hanno di fronte l'uomo che era ritenuto l'esperto mondiale su tutti gli aspetti della sessualità: il sesso psicologico, l'orientamento sessuale, l'eterosessualità, l'omosessualità, ma anche una idea che risultava nuova nel 1967 e si chiamava “identità di genere”.


mercoledì 24 settembre 2014

"FAMIGLIE" GAY GONFIATE NEI CENSIMENTI. Di Roberto Volpi


Pubblichiamo l'importante articolo di Roberto Volpi "Tutte quelle coppie gay (con figli) sparite dal censimento, o forse mai esistite", tratto da Il Foglio del 23 sett. 2014. Illuminante.

Un mucchio di baggianate. Ecco di cosa abbiamo discusso, ed ecco del resto che cosa hanno tentato di rifilarci: un muc- chio di baggianate. In tutti questi anni di dibattito ideologico e di forzature politiche in vista di rivoluzioni legislative, era sembrato che le coppie omosessuali, gay e lesbiche, fossero un fatto ma che dico ordinario, ma che dico normale: proprio in spolvero, irresistibile e irreversibile, avviate a fare sfracelli e a sostituirsi in ogni città e cittadina ed enclave del nostro pae- se alle ormai declinanti e irrecuperabilmente démodé schiere delle coppie eterosessuali.


E invece? E invece ci vuole un po’ di pazienza e andare sul data-base Istat del censimento 2011, e fare un po’ (ma mica poi tante) di interrogazioni. Dunque.
Risultato della prima interrogazione: 16 milioni 648 mila nuclei familiari, di cui due milioni e 651 mila famiglie monogeni- toriali (un solo genitore più figli) e 13 milioni 997 mila coppie con e senza figli. Risultato della seconda interrogazione: poco meno di 13 milioni 990 mila coppie con o senza figli formate da un uomo e una donna e 7.591 – dicasi 7.591 – coppie con o senza figli formate da persone dello stesso sesso. In altre parole: una manciata di coppie/famiglie omosessuali gay o lesbiche ufficialmente affioranti come relitti di un naufragio tra i milioni e milioni di coppie eterosessuali. 


Avverte tuttavia l’Istat che “i dati relativi alle coppie dello stesso sesso sono sottostimati e si riferiscono solamente alle coppie dello stesso sesso che si sono dichiarate. Molte persone in questa situazione hanno preferito non dichiararsi nonostante le raccomandazioni”. Ok, d’accordo, “molte persone” omosessuali hanno fatto questa scelta del silenzio. Non proprio il massimo, per l’ideologia gender, una tale conclusione, dopo tanto esibito orgoglio, ma tant’è. E però sembra assai difficile supporre che per ogni coppia omosessuale censita ce ne siano, mettiamo, dieci o magari venti sfuggite al censimento, perché nell’eventualità ci sarebbe di che chiedere il subitaneo smantellamento del cen- simento stesso.


Dunque, fate i vostri calcoli. E vedrete che siamo pur sempre dalle parti di una piena marginalità. Fine dei giochi. E che nessuno si azzardi da ora fino al prossimo censimento a buttar lì cifre così per fare, nella convinzione che tanto nessuno te le contesterà mai. Perché invece proprio questo fanno i dati del censimento, che non solo certe cifre le contestano ma affibbiano uno schiaffone alla magniloquenza gay di quelli che lasciano un segno sulla guancia destinato a durare.
E veniamo al punto due. Peggio del primo, se possibile, per le così proclamatorie organizzazioni gay. Figli in coppie di que- sto tipo: 529 – dicasi 529. Uno ogni 14 coppie censite. Insomma, pochissime coppie e niente figli. Ci avevano assicurato, proprio quelle stesse organizzazioni, almeno 100 mila. Centomila figli in famiglie omosessuali e lesbiche. Quelli censiti sono duecento volte di meno. E di nuovo: magari l’I- stat ha, per la stessa ragione di cui sopra, sottostimato i figli nella proporzione di dieci o venti a uno. Ma ci si fermerebbe pur sempre a 5 mila figli, 10 mila alla più lunga, se anche così fosse, anni luce distanti dai tanto reclamizzati 100 mila. 
Salta alla mente il titolo di un romanzo di Hans Fallada – lo scrittore tedesco dei tempi del nazismo che scrisse anche “Ognuno muore solo”, il più bello e importante libro sulla resistenza tedesca – “E adesso, pover’uomo?”. Già, e adesso come la mettiamo? Come la metteranno tutti quelli che non si sono peritati, in questi anni, di cercare di ammannirci una realtà di sessualità ormai del tutto ibrida, confusa, mischiata, indifferenziata, risucchiata e frullata nel calderone anarchico e ribollente del “tutto meno della insipida etero- sessualità”? Ed ecco che le coppie italiane risultano eterosessuali al 99,95 per cento, secondo il censimento. Forse la proporzione vera è attorno al 99 per cento. Inferiore no di certo. Perché se fosse inferiore, significherebbe che ci sono almeno 150 mila coppie omosessuali ufficialmente conviventi sotto lo stesso tetto (pari, appunto, a poco più dell’uno per cento dei 14 milioni di coppie), venti e passa volte quelle che non hanno avuto timore a dichiararsi tali. Una “foto” letteralmente in guerra con quelle dell’ufficialità gay. E invece i dati non si possono tirare più di tanto. Quelli ufficiali meno ancora. E non si può far finta che non ci siano. O che, essendoci, non significhino poi molto. Ci sono e significano. Non molto, di più.


martedì 9 settembre 2014

I MATRIMONI GAY SONO DAVVERO DI SINISTRA? Di Michele Gastaldo

Ospitiamo un intervento di Michele Gastaldo  
(consulente di direzione / consulente per la conciliazione lavoro famiglia) 
intorno alla proposta dei matrimoni  gay e alla sue implicazioni sociali e politiche

Il vero problema risiede nel cambiamento della definizione del concetto di matrimonio: se il matrimonio diventa per lo Stato il “luogo degli affetti”, che di per sé che non ha più nessun legame con la nascita della futura generazione, lo stesso Stato si alleggerisce di parte delle sue responsabilità verso le future generazioni e verso le giovani coppie che le hanno a carico. Ovviamente per lo Stato è meno oneroso essere “custode dell’amore” dei suoi cittadini piuttosto che essere custode delle future generazioni e garante della sostenibilità dello Stato Sociale a venire. Se con il “matrimonio per tutti” la reversibilità della pensione e gli altri trasferimenti economici sono giustificati unicamente dalla cura che i coniugi si prestano vicendevolmente e non più dagli oneri rivolti alla futura generazione, questi stessi trasferimenti perdono in buona parte, se non tutta, la loro legittimazione. 

La questione del matrimonio gay o delle unioni civili equiparate al matrimonio tra un uomo e una donna è considerata da una parte (consistente) della sinistra in una ottica di dovuta uguaglianza, perché a eguali condizioni spetterebbero uguali trattamenti. Infatti, l’uguaglianza sociale, insieme a quello della pace, è indubbiamente il valore fondamentale della sinistra. Ma il matrimonio gay, il matrimonio “omo” tra due uguali è davvero uguale al matrimonio tra un uomo e una donna, tra due diversi?
Per realizzare la giustizia e uguaglianza sociale il Welfare, in gran parte conquistato attraverso un secolo di lotte politiche della sinistra e vera sua ragione d’essere, gioca un ruolo primario. Principale caratteristica dello stato sociale è la sua mutualità e il suo carattere solidaristico, prevalentemente in chiave intergenerazionale: in sintesi significa che le generazioni attive pagano la pensione e la sanità alla generazione anziana. La sostenibilità dello stato sociale dipende quindi dall’equilibrio intergenerazionale, demografico. Come è noto, tale equilibrio, in quasi tutti gli stati industrializzati con un sistema di welfare sviluppato, negli ultimi decenni si è progressivamente eroso, mettendo a repentaglio l’intero nostro sistema sociale.

La natura di questo nostro sistema sociale prevede che il costo del mantenimento della generazione anziana gravi sull’intera popolazione attiva, mentre il costo della nuova generazione, cioè dei figli, sia prevalentemente a carico delle famiglie. (Delle famiglie con figli a carico, per intenderci, dato che il termine “famiglia” oggi è usato in modo molto esteso.) I benefici dei figli invece, ossia la loro capacità, di mantenere da adulti la vecchia generazione attraverso i contributi previdenziali e le tasse, vanno a tutti.
È chiaro che in tale situazione, regolata dai soli meccanismi di mercato, la famiglia con figli non è più “competitiva” rispetto a chi non ha figli; ciò né sul piano dei consumi né sul piano del mercato del lavoro. È questo il motivo per cui lo Stato fino a oggi ha cercato – almeno nelle dichiarazioni d’intento - di riservare un trattamento distinto alla famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna, cioè a quella formazione sociale in grado di procreare. In Italia tale intento trova riscontro negli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, sostenuti sia dalla sinistra comunista che riformista dell’epoca.  

Chi chiede l’equiparazione delle unioni omosessuali alla famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna lo motiva solitamente con il fatto che la società, negli ultimi quarant’anni, si sarebbe evoluta sul piano morale e dei costumi. Infatti oggi siamo molto più liberi nell’organizzare i nostri affetti secondo i nostri desideri. In realtà il riconoscimento della famiglia basata sul matrimonio, intesa come “società naturale” che precede quindi la politica e le istituzioni statali, non era e non è basato su fattori di morale sessuale, bensì su un criterio sociale. Ovvero il trattamento “privilegiato” della famiglia ha come primario obiettivo la tutela dei più deboli, dei bambini, e, in una prospettiva politico-economica di medio-lungo termine, la sostenibilità dei sistemi sociali sopra menzionati, che presuppongono un sostanziale equilibrio demografico tra le generazioni. In tale contesto va inoltre considerato che l’innalzamento del livello occupazionale femminile, che nei quattro decenni passati ha contribuito a compensare parzialmente gli effetti dello squilibrio demografico, rappresenta un provvedimento “una tantum” che oggi ha in larga misura esaurito il suo potenziale.   

martedì 15 luglio 2014

"CHIEDIMI SE VOGLIO VIVERE" O IL SUICIDIO DEGLI ADOLESCENTI. Di Emanuela Vinai


Pubblichiamo l'articolo di EMANUELA VINAI intorno al suicidio degli adolescenti. L'articolo fa parte dell'inserto dell'Avvenire 
NOI GENITORI E FIGLI, uscito il 5 luglio 2014.  

L’adolescenza, si sa, è un periodo difficile, “l’età ingrata” si diceva una volta e nel mondo di oggi troppo spesso è un momento segnato da solitudine, frustrazione, delusione. Ora l’allarme lo ha lanciato nientemeno che l’Organizzazione mondiale della sanità. Nel recente rapporto Health for the world’s adolescents, evidenzia come nei giovani di tutto il mondo, di età compresa tra i 10 e i 19 anni, il suicidio sia la terza causa di morte dopo incidenti stradali e Aids e la causa dominante di malattia e disabilità sia proprio la depressione. Solo nel 2012 sono stati circa 1,3 milioni di adolescenti a perdere la vita per queste ragioni. 
Questo dato angosciante che certifica la vulnerabilità dei giovani, non solo testimonia le difficoltà incontrate dal ragazzo/a durante il suo percorso di identificazione e di emancipazione, ma esprime anche un disagio dell’intera società. Gli adolescenti vivono in un mondo incapace di comunicare valori e significati esistenziali e di fornire gli strumenti necessari per il costituirsi di un senso d’identità solido e forte. Allo stesso tempo, il troppo interesse ed enfatizzazione mediatica può portare a fenomeni di emulazione.

Prestare troppa attenzione mediatica a casi di suicidio può risultare un boomerang e stimolare pericolosi comportamenti emulativi fra gli adolescenti. A dirlo è una ricerca dello State Psychiatric Institute di New York pubblicata sulla nuova rivista psichiatrica The Lancet Psychiatry. Lo chiarisce la dott.ssa Madelyn Gould, fra gli autori dell’analisi: “i nostri dati indicano che la copertura giornalistica e la quantità di dettagli pubblicati potrebbero influenzare il numero di suicidi portati a termine dagli adolescenti per imitare il primo”.
“L’adolescenza è un’età complessa in cui entrano in gioco diversi aspetti nodali della personalità perché è il momento in cui si struttura l’identità dell’individuo”, spiega Giancarlo Ricci, psicanalista e saggista. “Gli adolescenti attraversano una regione particolare, dove c’è molta solitudine, noia e dove le scelte importanti rimangono sospese e da elaborare. E’ una fase in cui prorompe il desiderio di vivere, ma c’è un’interrogazione radicale sul senso del vivere e rispetto agli enigmi che avvolgono l’uomo, come la morte”.
Dove si ‘perdono’ gli adolescenti? “Parlare di adolescenza e suicidio chiama in causa un certo modo di avvertire il disagio giovanile e certamente la nostra società non favorisce il tema del passaggio perché c’è una grande fragilità relativa alla dipendenza dagli altri, dalle aspettative dei genitori, dalla ricerca di sé. Nel mondo odierno il rischio è che tutto sia già pensato, pensabile e programmato, e dove il divertimento è un obbligo, i ragazzi cercano in tutti i modi di superare altri limiti anche con l’autodistruzione. Faticare a trovare un senso alla vita rende la morte affascinante”.
Qual è la responsabilità della società in questo?
“La società del benessere preferisce otturare o prevenire ogni desiderio, perché non sopporta che un giovane possa trovare una via autonoma per affermare le proprie aspirazioni. Dov’è la fatica, la gioia della conquista, se già viene dato tutto? Il suicidio degli adolescenti sembra una metafora di una società bulimica che non è in grado di trasmettere legami forti e autentici e fa collassare il desiderio”. 
Nel suo ultimo libro “Il padre dov’era”, lei analizza la sistematica delegittimazione della figura paterna e i danni che ne derivano.  “La progressiva desautorazione di ogni forma di autorità e l’esaltazione della libertà personale incondizionata determinano un’indifferenza di fondo in cui gli adolescenti non trovano punti di riferimento. Anzi, sono continuamente bombardati da messaggi che esaltano l’onnipotenza dell’uomo che può decidere cosa fare e come farlo e allora perché non poter decidere anche quando morire? Se tutto è possibile allora anche la morte è possibile e allora perché non sfidarla? La libertà senza responsabilità porta a conseguenze durissime”.
L’educazione da parte dei genitori non serve solo a fornire le regole di convivenza sociale, ma anche a supportare i figli con metodi di gestione emotiva e la capacità di saper affrontare le delusioni e i dolori. “Si fa sempre più fa fatica a rimproverare, per un malinteso tentativo di evitare ai giovani un senso di frustrazione, ma l’ascolto è e resta un punto fondamentale, nella famiglia e nella scuola. Un ascolto che pone dei punti fermi e, allo stesso tempo, non deve essere finalizzato a qualcosa di pedagogico quanto piuttosto a intercettare un disagio, una difficoltà nella costruzione dell’identità. Ascolto significa restituire ai giovani il loro modo di porsi rispetto a libertà e responsabilità”. 

domenica 22 giugno 2014

GLI ONERI DELL'ONOREVOLE MARZANO SULLE SENTINELLE IN PIEDI di Giancarlo Ricci



BREVE E MERITATO COMMENTO : 

L’Onorevole Michela Marzano, in questa intervista si dichiara “molto preoccupata” dell’avanzata delle Sentinelle in Piedi. Non ha torto. Esibisce con disinvoltura grande anacronismo (non senza comicità) quando accosta il movimento Sentinelle in Piedi alla “crisi di una visione” che sostiene il maschilismo e il sistema patriarcale (sic.!). 
Secondo l’Onorevole le Sentinelle in Piedi sarebbero “ciò che resta del maschilismo” e di un “sistema patriarcale che non riesce a mettersi in discussione” (???). Folgorante accostamento: in pratica la lotta contro l’omofobia, il riconoscimento delle nozze gay o della famiglia omogenitoriale, sarebbero il giusto esito di un pensiero unico che avrebbe sconfitto il bieco maschilismo e il violento sistema patriarcale ! In altri termini: liquidiamo il padre, il suo sistema  simbolico, la sua promozione dell’identità maschile, la virilità stessa e avremo finalmente una società basata sul principio materno dell’omosessualità, dove tutti sono uguali, dove i sessi hanno rinunciato  alla loro differenza e dove la giustizia sociale  potrà trionfare !
    Ma queste non erano le tesi più rudimentali del femminismo vetero radicale degli anni ’’70 e ‘80? L'uguaglianza tra i sessi, governata da un nuovo matriarcato,  sconfiggerà i maschietti e piegherà i padri ! 
In sintesi: Marzano sarà pure Onorevole ma simili affermazioni strampalate, ultra ideologiche e soprattutto disinformate della realtà sociale del paese e della condizione delle famiglie oggi, risultano per noi tutti un onere ben poco onorevole. Un onere abbastanza pesante per noi tutti, liberi cittadini con pensieri plurali. 




lunedì 5 maggio 2014

IL GODIMENTO SMARRITO DELL'OMOSESSUALITA'. Intervento di Chiara Oggionni

Pubblichiamo alcuni passi dell'articolo di Chiara Oggionni (psicoanalista, psichiatra) sul libro Il padre dov'era di G. Ricci. L'articolo è uscito sulla rivista LETTERA dedicata al tema 
CURA E SOGGETTIVAZIONE (Mimesis, Milano 2014) 


(…) Ricci chiama “godimento smarrito” la bandiera della libertà omosessuale. Una libertà ostentata ed imposta al mondo e distingue lucidamente due forme di espressione omosessuale dove l’una interroga il soggetto e l’identità e l’altra è un’adesione di militanza gay, una forza politica che si appoggia ad un gioco sottile di poteri. Sul problema identitario di genere si collocherebbe la “scelta” omosessuale. Il vantaggio di questa posizione risiederebbe nella potenza gruppale e partitocratica degli omosessuali e di chi regola il potere dell’ideologia. La lettura che ne esce è sconfortante, poiché ci riporta alla questione della conduzione occulta e dell’uso demagogico dei problemi psichici da parte dei mass media e alla prevedibilità del risultato finale dove la diagnosi sarà il nome proprio del soggetto, una marca di appartenenza e una forma di controllo sociale delle masse. L’omosessualità diventa allora un movimento di adesione che può portare visibilità e vantaggio nel sociale e nelle aree intellettuali e politiche, saltando al volo l’autoanalisi sull’identità sessuale, sul tema della sessualità, dei rapporti e delle relazioni nella vita. Come effetto collaterale dell’impostazione rigida del movimento ideologico omosessuale si rinforza in questi anni il concetto di omofobia come posizione critica e discriminatoria verso qualunque forma di omosessualità. L’omofobia diventa un’altra parola strumentale ed individua colui che giudica l’omosessualità una malattia.


(…) Nella sessione del libro che si intitola la “nuda sessualità” l’autore svolge il tema del confronto con l’alterità. L’omosessualità legata al piacere pregenitale porta ad escludere naturalmente la filiazione e la trasmissione. Lo scacco simbolico di questa posizione appare evidente all’autore; da questo assunto che più volte viene ripreso nel libro e ne costituisce come ho già osservato il punto di originalità e di forza, si colloca il grande interrogativo sul tema del controllo delle masse al fine della disgregazione del nome del padre, del caos e della sovversione della potenza del legame familiare. 
(…) La seconda parte del libro è dedicato alla clinica delle omosessualità. L’autore ripercorre i capisaldi della teoria della psicoanalisi freudiana e lacaniana e altri autori contemporanei. Come per altri sintomi anche per il sintomo omosessuale la qualità del fenomeno dipende dalla struttura che lo sottende; nevrosi, psicosi o perversione. Nell’omosessualità il sintomo si produce durante il processo di sessuazione che è volto alla costruzione dell’identità di genere. Nella nevrosi il soggetto opera un interrogativo per comprendere il sintomo. Nelle psicosi o nelle patologie borderline il sintomo funziona da supplenza dove la direzione della cura dovrebbe favorire una stabilizzazione sintomatica. Nella perversione, denominata “parafilia” si situa il problema della fissazione alla sessualità infantile e al godimento dell’identico; in questa formulazione per il soggetto, l’altro è puro oggetto di godimento e non vi sono i sentimenti di vergogna o di colpa. 
(…) La teoria dell’autore, che dà il titolo al libro si appoggia su due importanti considerazioni teoriche. Il declino simbolico del padre, la confusione dei generi e il prevalere nel sociale del codice materno. Ricci considera come staccando l’istanza del piacere della funzione riproduttiva, il sesso rimanga solo un organo del godimento. Una delle conseguenze è l’indebolimento della differenza tra i sessi e la prevalenza di soddisfacimenti autoerotici o solitari come internet, la pornografia, i giochi di ruolo. E la caduta del desiderio sessuale. Il padre dov’era è una forma di risposta al trauma della forclusione del nome del padre, all’impossibilità di accedere alla funzione simbolica del padre, nella solitudine senza parole del rapporto con una madre dal desiderio esclusivo che sa possedere in modo totalitario. Dalla Ballata delle madri di Pasolini, l’autore riporta uno stralcio emblematico: 

“Madri mediocri, che non hanno avuto 
per voi mai una parola d’amore, 
se non d’un amore sordidamente muto 
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto, 
impotenti ai reali richiami del cuore”.

Quello che resta dalla lettura del libro di Giancarlo Ricci è molto più profondo rispetto al tema che viene trattato negli aspetti storici, sociali e teorici. Si denota nell’autore una passione per la clinica e la capacità di cogliere l’immensa solitudine del paziente. Ma quale solitudine? (...)

martedì 15 aprile 2014

PRONTI I CERTIFICATI ANTIPEDOFILIA di Giancarlo Ricci


Il libro Pedofilia. Una battaglia che la Chiesa sta vincendo
di Massimo Introvigne e Roberto Marchesini (SugarCo) 
fa il punto sulla problematica della pedofilia
dal punto di vista storico, filosofico, clinico. 
Intanto la recente approvazione del "Rapporto Lunacek" 
da parte  del Parlamento Europeo e 
l'obbligo del "certificato antipedofilia
passano sotto silenzio.



“La marcia verso la normalizzazione della pedofilia procede apparentemente inesorabile ed inarrestabile”, osserva Roberto Marchesini (psicologo e formatore).  Il suo contributo, assieme a quello di Massimo Introvigne, lo troviamo in un libro dal titolo Pedofilia. Una battaglia che la Chiesa sta vincendo (SugarCo, 2014).
Mentre Introvigne riconsidera tutta la questione della pedofilia nell’ambito della Chiesa, “scandali” e strumentalizzazioni incluse, il contributo di Marchesini svolge un approfondimento storico, filosofico e soprattutto clinico. E’ un contributo poliedrico, essenziale che inquadra la questione nei suoi svariati aspetti: dalle ambigue definizioni psichiatriche alla classificazione sempre meno ristrettiva da parte del DSM 5, dall’analisi dei movimenti pedofili alle strategie comunicative che i mass media utilizzano per far passare un’idea normalizzante di una perversione sempre più “accettabile”. Del resto è sempre più urgente distinguere, come propone Marchesini nelle prime pagine del suo contributo, tra pedofilia, pederastia, efebofilia e le dinamiche psichiche e psicologiche che ne sono alla base. Solo distinguendo  infatti è possibile cogliere la complessità di un fenomeno che si sta diffondendo sempre più, dal turismo sessuale a una cultura lassista e indifferente in cui “tutto è possibile”. 

Lo dimostra brillantemente l’iniziativa ministeriale che, su direttiva comunitaria, impone l’obbligo, per coloro che lavorano “a contatto” con minori, di un “certificato antipedoflia”, in pratica la verifica del casellario giudiziario. Curiosa vicenda, indice e sintomo di come la società risponde unicamente in termini giudiziari di fronte a quelle questioni esplosive che non è in grado di affrontare altrimenti, ad esempio in termini culturali, di educazione, di formazione, di progetto di civiltà. Curiosa questione, ulteriormente, che a imporre questa procedura burocratica sia stata (essenzialmente) la Germania in cui la pedofilia raggiunge livelli da record, insieme ad altri paesi nordici. Non preoccupiamoci: il nuovo DSM 5, appena uscito, proclama disinvoltamente che le “parafilie non sono da considerare ipso facto disturbi mentali”. In termini storici non possiamo fare a meno di osservare che ciò che accade oggi a proposito delle parafilie (tra cui la pedofilia) accadeva quattro decenni or sono per l’omosessualità, quando fu derubricata dal DSM. 

E ancora, da un altro punto di vista storico e politico, per seguire il tema scottante della pedofilia e del suo uso mediatico, abbiamo in questo libro il notevole contributo di Massimo Introvigne. Il quale dimostra come dall’Irlanda agli Stati Uniti, passando per l’Italia, si siano organizzate autentiche lobby per amplificare con statistiche gonfiate il fenomeno, per lucrare attaccando le diocesi con cause miliardarie, per promuovere speculazioni intese a screditare i Pontefici, i sacerdoti e più in generale la Chiesa. 

martedì 1 aprile 2014

EDUCARE ALLA DIVERSITA' O AL PENSIERO UNICO? di Giancarlo Ricci


“Due uomini che fanno l’amore”. Note critiche a  proposito dei Fascicoli "Educare alla diversità a scuola" ideati dall' UNAR e oggetto di un'interpellanza parlamentare (e non solo)


A proposito dei fascicoli EDUCARE ALLA DIVERSITA’ A SCUOLA, ideati e finanziati dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) in collaborazione con la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI e il DIPARTIMENTO PER LA PARI  OPPORTUNITA’, proponiamo alcune considerazioni critiche. Per i promotori questi fascicoli avrebbero dovuto servire a prevenire e a contrastare, nella scuola italiana, l’omofobia e la discriminazione. A tale scopo, in realtà, basterebbe il senso civico, alcuni articoli della Costituzione Italiana, l’educazione civica o, nella fattispecie, il codice civile e penale. Si fa finta di non sapere che il nostro paese, rispetto ad altri europei, è in cima alla classifica per la lievità del fenomeno dell’omofobia. 

Perché tanta urgenza? 
Perché tanta premura nell’evocare l’urgenza di contrastare situazioni che vengono definite di razzismo, di violenza, di odio, di disprezzo, di discriminazione? Se leggete questi Fascicoli parola per parola vi accorgete del trucco. Esso consiste nell’affermare una visione gender della sessualità, delle relazioni, della famiglia, dell’educazione facendola passare come necessaria e improrogabile. Paventando un’urgenza istituzionale e sociale tali Fascicoli, più che informare, cercano di indottrinare e di diffondere un pensiero unico. 

Sulla presunta scientificità
In questi Fascicoli sono sostenute affermazioni perentorie in
quanto convalidate da una presunta scientificità. Le affermazioni riguardano valutazioni sia sociologiche, comportamentali, giuridiche sia affermazioni riguardanti l’origine dell’omosessualità, alla psicologia della sessualità, ai parametri psichiatrici del DSM. In realtà i riferimenti che vengono spacciati come oggettivamente scientifici rinviano a testi e ad autori americani esclusivamente di area cognitivo comportamentale. Quest’area rappresenta, nella vastità di correnti e indirizzi della psicologia del nostro tempo, solo una parte e nemmeno così estesa. Del resto l’orientamento cognitivo comportamentale viene apertamente dichiarato dall’Istituto Beck. 

L’Istituto Beck
La fondatrice e direttrice di questo Istituto, la dottoressa Antonella Montano, è autrice (militante) di alcuni testi dedicati all’omosessualità femminile. Tra le varie pubblicazioni a cura dell’Istituto Beck troviamo un titolo come La terapia affermativa dell’omosessualità (2013). In altri termini: nell’area cognitiva comportamentale, l’Istituto Beck pare apertamente schierato a favore e a sostegno delle posizioni LGBT. Tra l’altro colpisce la curiosa coincidenza rispetto a un libro dal titolo Identità sessuale a scuola. Educare alla diversità e prevenire l’omofobia, uscito nel 2009 e curato da due autori che si occupano di problematiche LGBT e che forniscono, per alcuni aspetti, la traccia che viene ripresa nei suddetti Fascicoli. 

La negazione degli altri orientamenti psicologici
Un dato ulteriormente significativo è che l’ampia area teorica e clinica della psicologia, com’è risaputo composta da varie scuole e orientamenti, in questi Fascicoli non viene nemmeno considerata. Per i compilatori è come se non esistesse. Per esempio diverse acquisizioni della psicoanalisi (di varie scuole e di vari paesi europei come per esempio quelli dell’America latina) rimangono rigorosamente assenti, silenziate, nonostante la letteratura non solo psicoanalitica su tali tematiche sia ormai vastissima e consolidata. Di fatto alcuni termini che hanno una rilevanza teorica e clinica nella tradizione psicologica (e psichiatrica) europea risultano espunti. Portiamo alcuni esempi: vita psichica, amore, inconscio, relazione, innamoramento, sessuazione, sintomo psichico, funzione paterna, struttura edipica

L’uso della sessuologia
In questi Fascicoli altri termini come affetto, identificazione, identità, fobia, odio vengono banalizzati e utilizzati in modo psicologistico. Non solo: l’apparente asetticità e neutralità (quasi puritana) delle argomentazioni sembrano espungere termini come piacere, godimento, soddisfazione, desiderio. Della complessità psicologica implicata da questi termini si impone soltanto una parola che sembra importata dal lessico zoologico: attrazione. Come se il campo dell’umano e della sessualità potesse essere definibile in base ai “bisogni” dell’istinto. Del resto è tipico di una certa impostazione d’oltreoceano utilizzare, in materia di sessualità, una modalità sessuologica che privilegia la prestazione, la funzionalità, l’orientamento sessuale indifferenziato a discapito del contenuto dell’atto sessuale nelle sue valenze amorose, relazionali, affettive, progettuali. 
Risposte slogan
Nei Fascicoli vengono proposte questioni spesso formulate in modo già tendenzioso, univoco, perentorio, dogmatico. Chiudono le domande invece che consentire una riflessione, un’apertura. La dimensione psicologistica, utilizzata per dare risposte preconfezionate, rimane senza pensiero a favore di formule che si ripetono nei Fascicoli come slogan. Ciò che prevale non sono eventuali strumenti critici per approfondire tali tematiche ma un’impostazione didattica e propagandistica. Indicativi, in tal senso, i facsimili simili proposti alle scuole al fine di creare manifesti e lettere per sensibilizzare studenti e genitori.
Ritroviamo in tutto ciò la lunga e pesante mano delle 29 associazioni LGBT (ci sono proprio tutte) che hanno collaborato (con ampi compensi) al Documento UNAR. Inoltre i Fascicoli risultano spudoratamente autopromozionali, come viene suggerito (p. 18): “La scuola potrebbe avvalersi dell’esperienza di alcune organizzazioni esterne, invitando a parlare in un’apposita riunione d’istituto rappresentanti volontari di varie associazioni (gruppi contro la violenza o il bullismo, gruppi in difesa dei minori, associazioni gay e lesbiche)”. 

Sul concetto di omofobia e di discriminazione
Entriamo in merito. La definizione proposta di omofobia e di discriminazione è come un oceano: si va dall’ostilità più o meno esplicita e più o meno consapevole a forme di disprezzo o di disgusto. E ancora: pregiudizio, emarginazione, molestie, attacchi, isolamento, pettegolezzi, “furti di cose personali” e via dicendo. Poi si giunge all’odio dichiarato per arrivare alla violenza (verbale e fisica). Ma c’è anche il razzismo, come se gay e lesbiche appartenessero ad un altra razza (sono loro a ipotizzarlo). Inoltre c’è anche il bullismo, quello omofobico. Insomma c’è di tutto un po’. C’è l’intero codice penale. In definitiva, in assenza di una precisa definizione giuridica di omofobia, ogni pensiero critico, non omologato o non allineato con la visione gender potrebbe risultare discriminatorio.  
In realtà ciò che ci sembra un vero atto discriminatorio è quello per cui una realtà (assai complessa e variegata) possa essere definita in modo univoco e unilaterale, tanto più con la pretesa di essere considerata come l’unica. Ogni virgola che si discostasse da questa versione ricade nell’omofobia e nella discriminazione. In definitiva questi Fascicoli, rivolti all’intera scolaresca della nazione, propongono un pensiero unico al di fuori del quale regna l’omofobia.
Chi sono i più omofobi?
E’ davvero curioso che i compilatori di questi Fascicoli si
siano adoperati anche a fornire, grazie alla grande richiesta da parte di studenti, genitori e insegnanti, dati scientifici relativi ai motivi intrinseci che determinano l’omofobia. “Come appare evidente, maggiore risulta il grado di ignoranza, di conservatorismo politico e sociale, di cieca credenza nei precetti religiosi, maggiore sarà la probabilità che un individuo abbia un’attitudine omofoba “ (p. 11). Forse il concetto è troppo complesso è occorre ribadirlo: “Per essere più chiari, vi è un modello omofobo di tipo religioso che considera l’omosessualità un peccato; un modello omofobo di tipo scientifico che la considera una malattia; un modello omofobo di tipo sociale che la considera una minaccia; e infine un modello omofobo di tipo politico che cavalca la paura della diversità” (p.11). 

Inventar l’eterosessismo per nascondere l’omosessismo
Eccoci al nodo centrale, al punto focale, alla madre di tutte le
discriminazioni. Leggiamo con attenzione: Nella società occidentale si dà per scontato che l’orientamento sessuale di un adolescente sano sia eterosessuale. La famiglia, la scuola, le principali istituzioni della società (...) si aspettano, incoraggiano e facilitano in mille modi, diretti e indiretti, un orientamento eterosessuale” (p. 3). Dunque la nostra società è strutturalmente omofobica perché pone al centro del suo funzionamento l’eterosessualità! Ecco la madre di tutte le violenze. Infatti “a un bambino è chiaro da subito che, se è maschio, dovrà innamorarsi di una principessa e, se è femmina, di un principe. Non gli sono permesse fiabe con identificazioni diverse. (...) Non ha intorno a sé persone che possano essergli di supporto, né vede nella società modelli positivi” (p. 3).
In definitiva, anche se una bambina e un bambino si accorgono di essere anatomicamente differenti, occorre che entrambi prendano atto della violenza cui sono sottoposti e che dunque si ribellino a simile imposizione. Ecco dunque l’educazione gender  con cui i soggetti devono essere costruiti: “Se una bambina ama giocare a calcio con i compagni e si sporca i vestiti, le viene detto di non fare il maschiaccio. Una volta cresciuta, deve imparare a cucinare, deve volere un marito e dei figli. Così un uomo deve amare guardare la partita o la Formula 1 in Tv. Ogni volta che un individuo non si conforma a queste aspettative, la società lo considera strano, lo fa sentire sbagliato rispetto a un modello stereotipato di riferimento” (p. 8). 

L’insegnante “educatore dell’omofobia” ?
Avete letto bene. A pagina 3 dei Fascicoli si legge proprio così:  “Vengono forniti agli insegnanti gli strumenti per approfondire le varie tematiche legate all’omosessualità, così che essi stessi possano diventare educatori dell’omofobia” (p. 3). “Educatore dell’omofobia” significa educare gli alunni all’omofobia. Davvero un bel lapsus, sarà stata la fretta o un errore di traduzione dall’inglese.
A parte questo simpatico strafalcione gli estensori dei Fascicoli, che evidentemente conoscono bene la mentalità degli insegnanti italiani, procedono in punta di piedi: “Affrontare l’omofobia e il bullismo omofobico può essere difficile per qualche insegnante (...). Ciò avviene perché le questioni riguardanti l’omosessualità, soprattutto in Italia, sono permeate di condizionamenti culturali e sociali dell’ambiente esterno e non vengono insegnate tra i banchi di scuola. Per queste ragioni, è importante fornire agli insegnanti uno strumento che consenta loro di acquisire le conoscenze necessarie (...)” (p. 3). Finalmente qualcuno fornisce strumenti oggettivamente adeguati. 
E infatti le raccomandazioni agli insegnanti abbondano: “Non usare analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa (cioè che assuma che l’eterosessualità sia l’orientamento “normale”, invece che uno dei possibili orientamenti sessuali)” (p. 6). Infine, un suggerimento per mantenersi “politicamente corretti”: “L’insegnante dovrebbe cercare di scegliere libri (o suggerire film o serie televisive) in cui ci sono uomini e donne, così come famiglie, diversi dallo stereotipo da pubblicità. Può eventualmente cercare degli ospiti esterni per parlare in classe, ad esempio un soldato donna” (p. 6).
Poi c’è tutta la didattica in cui bisogna fare esemplificazioni. Ma non è facile. Troviamo qualche esempio: “Nell’elaborazione di compiti, inventare situazioni che facciano riferimento a una varietà di strutture familiari ed espressioni di genere. Per esempio: “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?” (p. 6). Dimenticavamo: a proposito di spese, i Fascicoli sono costati 24.200 euro e l’Unar solo nel 2013 ha corrisposto alle varie associazioni LGBT che hanno collaborato contributi pari a 250.000 euro. 
Il trionfo del costruttivismo
Finalmente un po’ di chiarezza. Sappiamo che il riferimento sociologico che informano i Fascicoli è il costruttivismo: “Dal punto di vista scientifico, definiamo l’identità sessuale come un costrutto multidimensionale (Coleman, Isay, Klein, Seperkoff, Wolf, Laumann, Gagnon, Michael, Morris) cioè un concetto formato da diverse componenti che interagiscono tra loro in modi complessi” (p. 7). In altri termini: l’identità sessuale viene definita unicamente e soltanto secondo la visione proposta dal costruttivismo che è la corrente sociologica alla base della gender studies. L’identità sessuale, e in generale la sessualità umana, viene cioè concepita essenzialmente come l’effetto di una costruzione culturale e sociale. La natura è esclusa, anzi superata. Ciò che è naturale è ampiamente disponibile, modificabile, superabile in vista di una mutazione antropologica in cui il genere potrà essere liberamente scelto.
Non sorprende allora che gli esempi, i riferimenti sociali, scolastici, comportamentali, culturali che vengono drammaticamente evocati in questi Fascicoli si riferiscano palesemente al tessuto e alla realtà americane. Appare evidente la distanza astronomica con la nostra realtà scolastica, familiare, sociale, istituzionale. La quale storicamente appartiene a un’area geografica abbastanza differente da quella del nord Europa o da quella anglosassone che fino a pochi decenni fa riservava agli omosessuali pene severissime e persecuzioni. 

Essere o non essere
“In questi anni i bambini e le bambine si trasformano e diventano ragazzi e ragazze. Coloro che durante questo percorso di sviluppo si accorgono (o cominciano a sospettare) di essere gay, lesbiche o bisessuali seguono dei percorsi di crescita che sono allo stesso tempo simili e differenti rispetto ai coetanei eterosessuali” (p. 3). Quello che sorprende in questi tre Fascicoli dedicati alle scuole elementari, medie e superiori, è la disinvoltura con cui ricorre il verbo essere: essere gay, essere lesbiche. Stiamo parlando di bambini e bambine dai 6 ai 18 anni. C’è una vasta letteratura psicologica che insiste nell’affermare che fino all’adolescenza è inappropriato parlare di omosessualità. Perché dunque tanta insistenza sul verbo essere che istituisce ontologicamente un soggetto e che lo definisce in base all’orientamento sessuale? Perché precipitarsi a definire un soggetto quando ancora è strutturalmente indefinibile? 
In un certo senso comprendiamo la pressione ideologica che insiste nell’affermare che “l’omosessualità non è una scelta” e costituisce “una normale espressione della sessualità umana” (p. 9). Ci chiediamo: ma da che fonte “scientifica” o “giuridica” deriva quest’ultima bizzarra idea? In questi Fascicoli sorprende anche, su un altro versante, l’assenza totale, in merito alla complessa genesi dell’omosessualità, dell’evocazione di situazioni di abusi o maltrattamenti a livello di infanzia, pubertà o adolescenza. Silenzio. “Omosessuali si nasce” sembra sussurrare questo assordante silenzio. 

Non devi e non puoi “guarire” 
Se qualcuno prova un forte disagio per la propria omosessualità, cosa fare? Se qualcuno addirittura osa affermare di voler “uscire” dall’omosessualità, cosa dobbiamo suggerirgli? Prima di pensare qualcosa leggiamo cosa scrivono i Fascicoli: “La comunità scientifica si è espressa più volte contro le cosiddette “terapie riparative” che promettono cioè di convertire l’orientamento sessuale da omo a etero. Ad aggi non ci sono dati scientifici circa l’efficacia e la sicurezza di tali terapie. Innanzi tutto partono dalla premessa sbagliata secondo cui l’orientamento omosessuale debba essere cambiato. Secondo la comunità scientifica, essere omosessuali è infatti una normale espressione della sessualità umana, di conseguenza non c’è motivo di voler cambiare tale caratteristica” (p. 9). L’indicazione è precisa: “non c’è motivo di voler cambiare tale caratteristica”, “la premessa è sbagliata”. In altri termini colui che avverte tale atteggiamento “egodistonico” (così si dice nei manuali) verso la propria omosessualità, sbaglia. Non deve e non può avere una qualche aspettativa rivolta al cambiamento. 
Che la comunità scientifica abbia sanzionato qualcosa riguardo alle cosiddette “terapie riparative” è falso. C’è stato e c’è un dibattito, o meglio una polemica tra le associazioni LGBT e alcune associazioni di psicologi (Narth) che si occupano di clinica dell’omosessualità. Evidentemente le associazioni LGBT e i loro simpatizzanti escludono qualsiasi “cura” dell’omosessualità. Affermano, giocando sulle parole, che se si cura l’omosessualità significa che essa è una malattia. Ma non è così, dato che il “disturbo dell’orientamento sessuale” rimane menzionato nel DSM e nell’ICD 10. Alcuni Ordini Professionali degli Psicologi di alcune regioni italiane hanno attuato delle delibere sulle  “terapie riparative”. Affermano in modo demagogico che tali teorie sono vietate. Ma è un falso. Provate a leggere tali delibere, c’è intimidazione ma non divieto. 

L’origine dell’omosessualità
Basta con le visioni ideologiche. Occupiamoci
scientificamente del problema: “A oggi non è noto cosa determini l’orientamento sessuale, sebbene negli ultimi decenni si sia andati alla ricerca del perché si ha un determinato orientamento, di quali spiegazioni psicologiche, sociali, genetiche, ormonali o culturali possano esservi alla base“ (p. 9). Queste righe che avete appena letto, così intrise di ingenuo probabilismo, negano le centinaia di ricerche e di studi che si addentrano a illustrare le cause psicologiche e psichiche dell’omosessualità maschile e femminile. Parecchi di questi studi concordano nel ritrovare le origini dell’orientamento omosessuale nella posizione problematica della madre e del padre rispetto al figlio o alla figlia. Siccome la mentalità pragmatista americana si fonda sulle probabilità, sulle certezze dimostrate, sulle componenti statistiche, tali teorie vengono spesso (a comodo) considerate indimostrabili. Quindi, mancando la prova certa, mancherebbe anche la scientificità. E così si può affermare che “non è noto cosa determini l’orientamento sessuale”. Verrebbe da pensare che si tratta qui di una sorta di relativismo alla rovescia che è del tutto funzionale al pensiero gender. Ricordiamolo ancora: “l’omosessualità non è una scelta” ed è “una normale espressione della sessualità umana” (p. 9).
Se proprio volessimo affermare qualcosa sull’origine dell’omosessualità è sufficiente, secondo questi Fascicoli, il concetto di omofobia interiorizzata. Che in pratica evidenzia una posizione vittimistica in cui è sempre l’altro responsabile di qualcosa. La credenza dell’omofobia interiorizzata non è distante dalla posizione “dell’anima bella”.  “Per omofobia interiorizzata si intende l’ansia, il disprezzo, e l’avversione che gli omosessuali provano nei confronti della propria omosessualità e nei confronti di quella di altre persone. Essa deriva dall’accettazione passiva - consapevole e inconsapevole - di tutti i sentimenti negativi, gli atteggiamenti, i comportamenti, le opinioni, i pregiudizi tipici della cultura omofoba. (...) Tali dimensioni sottolineano quanto sia inevitabile per un gay identificarsi come parte di una minoranza stigmatizzata e accettare, in modo incondizionato, l’eterosessismo e le convinzioni omonegative della società” (p. 13). Siamo di fronte a un’opera immane: non solo sconfiggere l’omofobia della società ma anche quella degli omosessuali. Ma quando la società non sarà più omofoba scomparirà anche l’omosessualità ?  

Il gioco dell’oca
Ci sono aspetti anche divertenti in questi Fascicoli. Nella sezione FAQ, se proprio ancora avete dei dubbi, vi potete divertire. E trovate così questi giochetti basati su domanda e risposta: “Perché alcuni individui sono attratti da persone dello stesso sesso? Per la stessa ragione per cui altri individui sono attratti da persone del sesso opposto. (...) Quindi potremmo ribaltare la domanda chiedendoci: perché alcuni individui sono attratti da persone del sesso opposto?” (p. 23). Non male. Soprattutto in quanto a scientificità.
E ancora: “C’è una cura per l’omosessualità? Chiariamo subito che non ci può essere una cura per l’omosessualità, perché l’omosessualità non è una malattia. Chiunque dica il contrario diffonde un pregiudizio privo di valore scientifico. (...) Quindi potremmo chiederci: “perché dovrebbe esserci una cura?” (p. 23). Già, perché dovrebbe esserci una cura? Stavamo per dimenticarlo: non ci si può curare, non ci si può prendere cura di una questione che non è una malattia.  
Sull’antico dilemma tra natura e cultura: “I rapporti omosessuali sono naturali? Sì, il sesso tra le persone dello stesso sesso è presente in tutta la storia dell’umanità.(...) Quindi potremmo ribaltare la domanda chiederci: “I rapporti eterosessuali sono normali?” (p. 24). Ci sono altre domande. Vi assicuriamo che c’è da divertirsi. 

Pornografia e libertà 
Dicevamo che in merito all’origine dell’omosessualità non troviamo cenno, nei Fascicoli, alla questione degli abusi o dei maltrattamenti. L’altro assordante silenzio riguarda la questione della pornografia, divenuta ormai tra i giovani e giovanissimi di tutti i paesi occidentali, una delle “fonti” principali (devastanti) di “educazione sessuale”. La pornografia ha raggiunto ormai il suo apice con i mezzi informatici e si presenta come l’altra faccia, erotizzata e perversa, della sessuologia. Non siamo forse in un regime di libertà? 
A tal proposito colpisce una raccomandazione rivolta agli insegnanti: “Uno studente può dire la frase: Due uomini che fanno l’amore sono disgustosi. A quel punto l’insegnante può far notare che questa è un’opinione, è un giudizio personale, che deriva dal fatto che siamo poco abituati, dal cinema e dalla televisione, a vedere due uomini che si baciano o che fanno l’amore, è un fenomeno che per noi non è stato reso normale” (p. 24). Leggiamo bene l’ultima frase: in concreto si dice che purtroppo non siamo abituati “a vedere due uomini che fanno l’amore”. In pratica non siamo liberi in questa società omofoba di vedere due uomini che fanno l’amore. Per fortuna c’è internet e la rete. Lì posso trovare di tutto. Anche due uomini che fanno l’amore.